lunedì 24 marzo 2014

Parole e musica

Chiediamo aiuto a Wikipedia e vediamo cosa dice intorno al fenomeno cantautori. In Italia il moltiplicarsi degli esponenti di questa categoria di artisti - cresciuta specialmente nella seconda metà del Novecento - ha portato al formarsi di diverse scuole cantautorali (anche se la loro definizione specifica è piuttosto vaga, e riferita sostanzialmente alla città di nascita o di adozione degli artisti piuttosto che alle loro caratteristiche poetiche): le più note sono comunque quella genovese, quella romana, la napoletana, la bolognese e la milanese, sebbene il fenomeno si sia poi diffuso su scala nazionale.
La parola cantautore fu creata nell'ambito della casa discografica RCA da Ennio Melis e Vincenzo Micocci nel 1959 per il lancio diGianni Meccia[1]


Ovviamente, già vi erano stati dei personaggi che scrivevano e cantavano le proprie canzoni, come Domenico ModugnoOdoardo SpadaroEttore PetroliniRodolfo De Angelis e - andando ancora più indietro nel tempo - Armando Gill, uno dei primi a firmare sia i testi che le musiche delle sue canzoni (come spiegava nella celebre presentazione che faceva precedere ai suoi spettacoli: Versi di Armando, musica di Gill, cantati da Armando Gill) e il napoletano Berardo Cantalamessa, il primo ad incidere una sua canzone su disco 78 giri[2], la celeberrima 'a risata, nel 1895[3].

Luigi Tenco

Modugno è il primo che scrive canzoni partendo dalla cronaca: nel 1955 scrive Vecchio frack dopo aver letto su un giornale la notizia del suicidio del principe Raimondo Lanza di Trabia (marito dell'attrice Olga Villi) che, all'età di 39 anni, nel novembre del 1954 si era gettato dalla finestra del suo palazzo in via Sistina a Roma[4], ed anche Lu pisce spada nasce da una storia vera, letta in un giornale[5][6].


Nel mondo, in Francia per esempio, abbiamo delle varianti che o anticipano o seguono di pari passo il palesarsi di questa situazione culturale, infatti in questa nazione si ha il famosissimo chansonnier, cantante che esegue canzoni di cui, spesso, ha composto la musica e i versi. Il termine è usato soprattutto per indicare gli artisti appartenenti a quella tradizione che, presente in Francia fin dal Settecento, è stata ripresa nel periodo tra le due guerre mondiali da M. Chevalier, e rinnovata, nel secondo dopoguerra, da C. Trenet, G. Brassens, L. Ferré, J. Brel, G. Bécaud, E. Piaf, Y. Montand, J. Gréco ecc. A essa si sono ricollegati, a partire dagli anni 1950, i primi cantautori italiani. Tuttavia, non si ha alcuna intenzione di esaurire i n questa semplice digressione, il movimento mondiale di questi particolari poeti.


Vale la pena ricordare comunque magari qualche autore, pur non particolarmente conosciuto, come Mimmo Parisi, per segnalare che questa forma artistica è, per certi versi, quella più fruibile da chi ha fretta e, anche nella fermata fosca della metropolitana, può respirare il sentire attuale attraverso le note che non trovano frontiere invalicabili. Di seguito si pubblica “Il grande cielo”, testo della omonima canzone dell’autore citato.

Il grande cielo
(C. Parisi)

Fanculo a me
Che sono sempre chiuso dentro me
E poi fanculo a me che guardo lì
Quelli che vivono così
Quelli che poi…
Che tanto poi
Qui siamo solo di passaggio noi
Che i prati verdi sono in cielo su
Fanculo non ci credo più
…Non credo più
Il grande cielo
È tutto
Un trucco
È una statale col guard-rail distrutto
Con un cartello che porta al nulla
Fanculo a me
Che sprono tutti a non mollare mai
Io che la corda l’ho lasciata ormai
Ho sulle mani i tagli qui
Che bruciano
Fanculo a tutti
E grazie lo stesso
A te che butti
‘Sti versi nel cesso
A quella luna
Fottuta puttana
E per finire
Un po’ di bon ton:
Fanculo pure
A tout le grand monde!

(A cura di Diego Romero, giornalista freelance e blogger)

Per i più appassionati, qui il link al video di Mimmo Parisi,
“Il grande cielo”:





sabato 22 marzo 2014

Tra cielo e terra

Siamo qui a fare quattro chiacchiere con Mimmo Parisi, autore del “Grande cielo”.


D. Ciao. Da dove nasce “Il grande cielo” e come ti è venuto in mente di fare questo disco?
R. Il fatto è che sto rileggendo Spoon River che come tanti ho letto da ragazzo, avrò avuto 18 anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in questi personaggi si trovava qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente, mi ripromisi che, appena qualche scintilla giusta si fosse palesata nella mia mente, ne avrei parlato anch’io. Ovviamente il rimando nel brano non si nota, sì, voglio dire che non faccio citazioni dirette, ma l’aria che si respira nella mia canzone è quella della collina americana. Rileggendolo ho riflettuto su di un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi si Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare.


D. Cioè, tu hai sentito in queste poesie che nella vita non si riesce a "comunicare"? Quella che a me pare la denuncia più precorritrice di Masters, la ragione per la quale queste poesie sono ancora attuali, specialmente tra i giovani?



R. Sì, decisamente sì. A questo punto ho pensato che valesse la pena ricavarne una riflessione, parole e melodia, che esprimessero il mio punto di vista attuale. D’altra parte nei dischi racconto sempre le cose che faccio, racconto la mia vita, certo di esprimere i miei malumori, le mie magagne (perché penso di essere un individuo normale e dunque penso che queste cose possano interessare anche agli altri, perché gli altri sono abbastanza simili a me), sì, decisamente ho cercato di ispirarmi allo ‘spleen’ di Spoon River per mettere giù qualche verso sulla realtà che vivo io.
D. Bene, a questo punto ti chiedo una chiusura adatta a “Il grande cielo” e il suo autore.

R. Ti rispondo tra il serio, il faceto e l’autoironico, vorrei che Francesco Guccini, immenso cantautore che non ha bisogno certo delle mie congratulazioni, potesse dire di me che anch'io, al pari di De Andrè, ho capito la lezione di Lee Masters!

Diego Romero



Qui il video:

domenica 16 marzo 2014

Braccialetti rossi, il fenomeno inaspettato

"Braccialetti Rossi" ha trovato grande riscontro tra i giovani, sembra che il velinismo e il ‘vogliofareilcalciatoreperchèèfigo’ siano stati per un attimo accantonati per dare all’attenzione argomenti dotati di sicuro spessore. E’ un po’ fantascienza pensare che questo sia il segno che possa traghettare la fascia d'età tra i 14 e i 33 anni verso un approccio più dignitoso alla vita, tuttavia il film, o meglio, la fiction che tira adesso è questa. Vedremo. Vale la pena segnalare che comunque l’aria che si respira su questo set è quella mutuata dai vari Grandi Fratelli che hanno fatto credere a migliaia di persone che nella vita basta la faccia tosta e una botta di culo per sfondare, tuttavia tutte le strade portano a Roma recitava un vecchio adagio, e, se si è dovuto passare sotto le forche caudine della miseria mediatica dei reality ‘siamotutticapacidifarcazzate’, ben venga anche questo viottolo!


Ambientata in un ospedale pediatrico pugliese, la fiction di Rai1 dedicata alle storie di bambini malati di cancro, ha toccato picchi d'ascolto altissimi, sfondando il muro dei sei milioni di telespettatori. Un successo che sembra interpretare una vera tendenza: le intense storie dei protagonisti legate alla malattie e i valori edificanti che li aiutano a superare il dolore di ogni giorno entusiasmano il pubblico nonostante l'argomento trattato sia così delicato. Perché il titolo Braccialetti rossi? Perché per "sopravvivere" alla dura vita dell'ospedale i ragazzi decidono di formare una sorta di club: chi ne fa parte diventa "amico" con l'unico scopo di sostenersi e incoraggiarsi. La fiction di Rai1 si inserisce in un filone già ampiamente trattato negli Stati Uniti da serie come Breaking Bad The big C (che parlano di cancro) oltre che dai più classici ER- Medici in prima linea e Doctor House, ambientati negli ospedali. A ispirare il format? Il romanzo del catalano Albert Espinosa (che sta andando a ruba in tutte le edicole a 12 euro), scrittore malato di cancro per dieci anni, che è riuscito a guarire, trasformando il male in una grande esperienza.
IL LIBRO CHE HA ISPIRATO IL FORMAT/ Albert Espinosa ha compiuto un miracolo: malato di cancro per dieci anni, è riuscito a guarire, trasformando il male in una grande esperienza. A guardarlo è lui stesso miracoloso, capace di contagiare gli altri con la propria vitalità. Albert Espinosa racconta nel libro "Braccialetti rossi" (nelle librerie per Salani e in edicola con il Corriere della Sera) la propria giovinezza segnata dal tumore: più di un diario, più di una testimonianza, è una raccolta di tutto ciò che la sua condizione gli ha insegnato. E non c’è niente di astratto o dolente in queste pagine, ma la semplice volontà di mettere in pratica tutta la bellezza di quelle ‘lezioni’: come capire all'improvviso che perdere una parte di sé non è una sottrazione di vita, ma l’occasione per guadagnarne di più. In ventitré capitoli, che non a caso vengono chiamati ‘scoperte’, Albert Espinosa mostra come unire la realtà quotidiana ai sogni più segreti, come trasformare ogni istante di vita, anche il più cupo, in un momento di gioia.


LA TRAMA DEL LIBRO/ L'ambientazione è quella di un ospedale, in cui si ritrovano alcuni giovani ragazzi di età diversa dagli 11 ai 17 anni, che si conoscono e formano un vero e proprio gruppo il cui riconoscimento è appunto un braccialetto rosso al polso, donati loro dal “leader” Leo, che ha collezionato i braccialetti di tutte le sue operazioni. Ricoverati per motivi differenti, Leo e Vale hanno entrambi un tumore alla gamba, ma mentre al primo è già stata amputata, il secondo lotta per prevenirla, entrambi sono infatuati dell'unica ragazza del gruppo, Cris, che invece è in ospedale perché soffre di anoressia. Davide, “il bello” ha problemi di cuore, Tony “il furbo” ha avuto un incidente in moto, ed infine Rocco “l'imprescindibile si ritrova in coma ma gli altri si rivolgono a lui come cosciente membro del team. Albert Espinosa - Braccialetti RossiNel loro micro-cosmo impareranno insieme i valori della vita, credendo in se stessi e nella propria guarigione: vedremo che l'affetto è un elemento quotidiano che si riscontra soprattutto nelle piccole cose, che la sottrazione di una parte di sé non è la perdita di se stessi, che se si desidera fermamente qualcosa e si agisce opportunamente, ciò si creerà grazie alla nostra volontà. Un'opera estremamente toccante ma che riempie il cuore di speranza ed energia, quella che spesso hanno i giovani malati.
Il fenomeno televisivo dell'anno "Braccialetti Rossi" ha trovato grande riscontro tra i giovani. Affaritaliani.it ne ha parlato con il filosofo e psicologo Sandro Spinsanti, responsabile del comitato scientifico del Festival del Saper Vivere che prenderà il via il prossimo ottobre. L'INTERVISTA

Il filosofo e psicologo Sandro Spinsanti, responsabile del comitato scientifico del Festival del Saper Vivere che prenderà il via il prossimo ottobre, spiega in esclusiva ad Affari che la tv è di fronte a una svolta: preferisce il pathos all'eros. E rivela: "I social network hanno reso i giovani più sensibili".
Il fatto che un programma come Braccialetti Rossi abbia conquistato una vastissima platea soprattutto di giovani è il segno che qualcosa sta cambiando nella cultura?
"Il cambiamento non è di oggi. E' una svolta lenta di cui la tv è testimone dai tempi del successo di serie tv americane come E.R. o Dr. House, tutte ambientate negli ospedali. Ora anche dal boom di audience della fiction italiana Braccialetti Rossi si evince che temi apparentemente lontani dall'intrattenimento attraggono sempre più il grande pubblico".
I protagonisti sono malati di cancro...
"Proprio questo è l'elemento interessante. Fino a non molto tempo fa non solo non se ne parlava se non in sedi specialistiche, ma il cancro era un tabù assoluto. E' stato sdoganato da due serie tv tra le più affascinanti del panorama statunitense, Breaking bad e The big C, che hanno affrontato senza remore il tema del cambiamento che la patologia oncologica porta nella vita della persona".
Come mai?
"Credo che la televisione manifesti il bisogno sociale di diffondere vissuti di 'pathos', che ha una capcità attrattiva non minore dell''eros'".
Immedesimazione, paura, amore per il prossimo: che cosa genera secondo lei questo interesse verso le storie di dolore?
"Sì, c'è tutto questo, ma anche la volontà di infrangere tabù e fare della vita l'argomento di una conversazione importante".
I giovani rappresentano la maggior parte dello share...
"Questa è una sorpresa, ma non è l'unico caso in cui rivelano una sensibilità sorprendente..."
Ma quindi i giovani stanno cambiando?
"Credo che il discorso si possa ricondurre alla capacità di comunicazione che i giovani sviluppano all'interno dei social network. Il vissuto, le fantasie, le passioni e le paure (insomma la sfera emotiva dei singoli) sono sempre più al centro di uno scambio continuo tra i giovani e questo fa sì che anche le esperienze di patologia e sofferenza diventano oggetto di tante conversazioni, più oggi che ieri. Siamo di fronte a una svolta culturale molto importante da questo punto di vista".



Bene, il giudizio critico su tutta la faccenda è ovviamente positivo e dedico alcuni magnifici versi di Luigi Tenco ai piccoli ammalati di tutto il mondo (da ‘Vedrai vedrai’):
“…come fossi un bambino che ritorna deluso
si lo so che questa non è certo la vita
che hai sognato un giorno per noi
vedrai, vedrai
vedrai che cambierà
forse non sarà domani
ma un bel giorno cambierà”.
Qui invece qualche verso di Mimmo Parisi, il quale cerca di riportare a terra l’attenzione degli individui, persi ormai a progettare cose che non riusciranno probabilmente mai a realizzare (da ‘…Qui ci vorrebbe John Wayne’):
“Ma quale senso poi ha
Il vento della novità
Mondo ci dai meraviglie
Ma non abbiam meraviglia
Crediamo solo al PIL
Ai falsi miti
Al new deal”

A cura di Diego Romero, giornalista freelance e blogger

Qui i video di ‘Vedrai vedrai’ 


e ‘…Qui ci vorrebbe John Wayne’:


























       



lunedì 10 marzo 2014

John Wayne ci salverà (speriamo...)

Mimmo Parisi palesa il proprio impegno diluendo insieme polemica, canzone politica (intesa come descrizione di quel che dovrebbe essere e quello che invece passa il convento) e romanticismo.

E' questo quello che differenzia le sue opere da quelle di altri "colleghi cantautori".
Nelle sue canzoni, anche in quelle più  "graffianti", convivono elementi di denuncia,  descrizioni ovviamente che passano attraverso la metafora, situazioni anche sentimentali (perlomeno quelle che sono situazioni sentite e provate sulla propria pelle). E' come se all'impegno politico fosse stato dato "un cuore" e l'ideologia fosse accompagnata dal sentimento: c'è lo Stato che opprime con la sua ‘paralisis’ di marca joyciana, c'è la rabbia e la denuncia ma c'è anche la descrizione di momenti di nostalgia davanti a "ideali" che sembrano svanire con il passare degli anni. E' come se al centro della sua poetica, Mimmo abbia messo vicino ai vessilli, "l'uomo", con la sua precarietà e il suo bisogno di continue certezze.
Tra le canzoni emblematiche di questa "rara fusione di temi" si situa sicuramente “…Qui ci vorrebbe John Wayne”, ultimo suo grido verso la scelleratezza, di chi comanda sì, ma anche contro i sudditi contenti di essere sudditi. 





Inutile nasconderlo, c’è anche questo, quando un pensionato, un impiegato pubblico dicono a Grillo che deve farsi i cazzi suoi, che loro si vogliono godere i quattro soldini che si son guadagnati, beh, c’è poco da discutere: sono loro il lasciapassare per la cattiva politica e per la conseguente vita grama di chi ha niente. La redistribuzione dei beni, l’uguaglianza, il livellamento stipendiale? Macchè, macchè… la gente, certa gente non lo sa, ma è connivente con chi la sfrutta: cos’altro significa infatti che ‘…i direttori, i dirigenti, lo statista e via dicendo, hanno diritto a guadagnare di più e ad un trattamento diverso?’. Guadagnare di più… trattamento diverso… Ma per quale cazzo di ragione? Purtroppo, così ragiona il popolino ammaestrato e appartenente al gregge, quello raccontato da  Friedrich Wilhelm Nietzsche. Ma, ritornando alla produzione di Parisi, quanti autori di canzoni in Italia hanno saputo fondere in un brano il sentimento e la  politica di "in questa Italia di stronzi e di yes man/ qui ci vorrebbe John Wayne”? Ovviamente, il John Wayne auspicato è metaforico, il richiamo più vicino è quello del M5s, unica possibilità e vera novità dal 1948 a tutt’oggi.
Nei Rocco Siffredi, Schettino, e perfino l’incolpevole Peppa Pig, citati nella canzone, compare la disillusione, la consapevolezza di un mondo che non vuol cambiare e di partiti che non saranno mai più gli stessi (la canzone descrive l’attuale o quasi recente storia delle ‘cose’ successe e che succedono in Italia)". Nel secolo scorso si era tentata la mediazione tra i due grandi partiti di massa di allora, DC e PCI, poi tutto è naufragato nel giro di poco tempo. 




 



Quindi, il declino del "grande partito rosso italiano" era quindi cominciato,  la ricerca di "una nuova identità" continua infruttuosa anche oggi, con gente di destra che si è intrufolata alla chetichella perché, se è di moda essere di sinistra, nella vita è meglio farsi leccare il culo, come insegnano i gerarca...
“…Qui ci vorrebbe John Wayne è stato registrato nello studio personale di Mimmo Parisi – Stelledicarta - , la produzione è al solito molto spartana e con mixing e mastering ‘buona la prima o al massimo la seconda tanto la Warner o la Virgin non mi cagherà mai’, la promozione si ancora ai simpatizzanti del web, ai giornalisti freelance, ai blogger appassionati, alle radio/tv e agli store che ospitano la produzione di Mimmo Parisi in modo disinteressato.

Diego Romero, giornalista freelance e blogger

Qui il link al video:  http://www.youtube.com/watch?v=rakuoJZwoCE&feature=youtu.be